Un dialogo fra Lisa Parola e Irene Pittatore
Mi piacerebbe partire da dove ci eravamo lasciate nel 2013. In occasione di una tua mostra, nel testo di presentazione, citai una riflessione di Cristina Campo: “Devota come ramo / curvato da molte nevi / allegra come falò / per colline d’oblio, / su acutissime làmine / in bianca maglia d’ortiche, / ti insegnerò, mia anima, / questo passo d’addio…”. Ripartiamo da lì… Aggiungeresti altri versi?
Un coro, forse. Un’incredula supplica a ogni passo d’addio che non riesce a danzarsi e recalcitra. Possa la cagna che non abbaia compitare l’estremo saluto e almeno per una notte far versi ai suoi morti, agli abbandoni, come una poeta.
Dai tagli il verso. Dai gomiti.
La pelle della parola add…omestica il cane
(no, la cagna). Il verso
add enta la voce che a se stessa ripete
io?
Fin dall’inizio della tua ricerca, il corpo e l’identità sono stati punti centrali. Nella serie Coazione il tuo corpo è ritratto come fosse intrappolato in una ragnatela di fili e posato in spazi interstiziali. Immagini che rimandano a uno stato di costrizione, ma anche di relazione con il mondo organico. Quei fili rimandano a rami e radici. Come descriveresti questo stato in relazione all’abito che indossi, un semplice velo bianco?
In Coazione 5 e 6 indosso un lenzuolo pieno di asole, facile preda per l’esuberanza dei fili (ragnatele? Capelli? Rami? Radici? …), e un lungo abito di canottiere da uomo usate, entrambi realizzati da Clara Daniele. Un’ampia gamma di bianchi, lontana dal candore, che parla di soglie: questi abiti sono alberghi del sonno, del sogno e dell’insonnia, dell’amore e dell’estraneità. Una cuccia il primo, una pelle non sempre aderente il secondo. Un confine non perentorio fra nature, trame ammaccate di intimità: coltivate, confezionate, allestite e finalmente tradotte, se non addirittura tradite. Indosso quell’involucro di canottiere come la lingua dei padri, che contiene e conforma, che non ci comprende se non marginalmente, ricordando a me stessa di blandire quell’abito, forzarlo, sformarlo, mostrarne il rovescio.
Da cosa nascono le tue immagini? Ci sono punti di riferimento nella storia dell’arte o della fotografia?
I primi lavori nascono da versi riposti, intestini. Emersioni incoercibili, interrogatori. Dei lasciapassare: ho avuto bisogno di aver luogo. Come molte donne che non hanno radici salde nella letteratura, nell’arte, nelle teorie e nelle pratiche femministe, sono cresciuta nel progressivo disvelamento dell’oppressione, delle asimmetrie di opportunità e aspettative, della prescrittività della lingua e ho ingaggiato una solitaria seppure condivisa, mai completamente vinta, battaglia per l’individuazione, passata anche per l’auto-rappresentazione, per la presa di contatto con la (propria) natura, che molte artiste con me e prima di me hanno condotto attraverso esperienze performative e fotografiche.
Ho aperto linee di ricerca sul tema, cercato il confronto con artiste, curatrici e anche artisti, studiosi, curatori. Gli aspetti politici del privato hanno fatto irruzione, come l’interesse per la dimensione pubblica dell’arte. Ultime stanze (2014) è stato l’ultimo lavoro legato al ritratto di sé. Nell’abito bianco di canottiere siedo su una sedia poggiata a una parete, di fronte a una sedia vuota, che sembra sospesa, in attesa di essere occupata da un interlocutore. Da quel momento, la relazione (più che l’alterità, che sempre ho riconosciuto in me prima ancora che negli altri) ha preso il sopravvento, è diventata al contempo soggetto e metodo di lavoro. E la fotografia non ha cessato di essere sintomo prima che traccia, strumento di emancipazione, attrezzo da lavoro, esca, dispositivo di aggregazione, medium da forzare, precipitato poetico, vettore di azione.
Nel tuo lavoro sull’identità il concetto di norma è messo radicalmente in discussione. Rispetto all’identità e all’abito cos’è per te la norma e come si relaziona con il suo contrario, quel non normato che indaghi attraverso gli ultimi lavori?
Più si è difformi rispetto a costumi talmente consolidati da sembrare “naturali”, anche in fatto di abbigliamento, più è facile avvedersi della propria non conformità e della rigidità di queste norme. (Un esempio fra mille, recente, alle nostre latitudini riguarda Silvia Calderoni. L’attrice dei Motus è stata aggredita all’uscita di una toilette femminile in un locale di Roma, poiché scambiata per un uomo. Indossava abiti “maschili”, aveva i capelli corti e non aveva trucco).
Il progetto performativo Habitus (2017) prende le mosse proprio dall’osservazione delle forme in cui la cosiddetta eteronormatività plasma comportamenti, azioni, gerarchie di genere, modella il linguaggio e gli spazi, definisce ciò che è adeguato e decoroso, conformando rigidi modelli di femminilità e mascolinità. Habitus è una coreografia minima di un pubblico scambio d’abiti fra sconosciuti, un esercizio collettivo di erosione delle convenzioni che confinano le persone entro rigidi parametri e convenienze di genere, una ricerca sull’abito come soglia fondamentale, come “pelle” sociale, come linguaggio che esprime e codifica le differenze.
La nostra identità è sempre un’identità sociale e questo procedimento per travestimenti immagino sia indirizzato a un bisogno profondo di sperimentare e vedersi altro. Come una certa indicibilità del chi siamo, ma anche un trovare un altro da sé.
Tutto è iniziato con un “accessorio’’, Supposta Norma (2015). Una scultura-gioiello nata in occasione di una mostra dedicata all’eros, agli immaginari erotici e alla loro conformità a presunti criteri di normalità. Sulla riproduzione in resina di una supposta in scala 1:1 è impressa la formula matematica della norma, o spazio normato: X, II . II. Supposta Norma interroga i confini fra norma e devianza, veglia le intersezioni, invita a esplorare le nostre alterità, le infinite declinazioni dei rapporti interpersonali, a frequentare le tassonomie LGBTQIA, preziose nel percorso di individuazione di sé e nella rivendicazioni di diritti, ma anche a rimasticarle un po’, in nome del mistero, della complessità e dello sconfinamento.
Abitare l’altro, mettersi nei panni di un altro. In molte delle tue azioni inviti i partecipanti a spogliarsi di parte del sé per abitare temporaneamente i panni di altri. Immagino che in questi processi l’aspetto temporale abbia un ruolo importante. Vorrei lo raccontassi.
Ho realizzato alcuni ritratti in meno di un’ora. Altri richiedono molto tempo e alcuni ripensamenti. L’attitudine a lavorare con il corpo e l’indifferenza verso il risultato (l’assenza di ansia per il “venir bene’’) agevolano processo ed esiti formali. Una relazione intensa con il soggetto prescelto può favorire la “transizione”, come anche il desiderio, l’interesse e una reale disponibilità a indossare indumenti altrui. Mi è capitato, osservando i miei abiti indossati da uomini, di riconoscerli – e di sentirli riconosciuti – come parte integrante di chi avevo di fronte. Un’aderenza sartoriale all’altrui profilo, una rivelazione di vertiginosa bellezza, vulnerabilità, rivoli di inquietudine. Come prevedibile, il processo è meno generativo se nell’abito dell’altro si cerca più di ogni altra cosa una gratificazione della propria vanità: di solito ne emergono ritratti non privi di avvenenza, ma scarsi in vibrazioni, e allora si deve tornare sui propri passi, se le parti lo desiderano ancora.
Quando qualche sconfinamento avviene davvero, anche la dismissione dell’abito altrui è percorso delicato, da farsi come quando si emerge da una immersione subacquea, lentamente, compensando.